STANZA 31

 

 

                    


       

 

 

 

 

 


               “Dottore?”

“Sì?”

“Vorrei
parlarle. Se ha un minuto…”

“Prego.”

Indicazione
di una poltrona, giro della scrivania.

“Mi
dica.”

Non
dici: vorrei sfidare il suo codice oscuro, pulirmi le scarpe sul potere delle
sue parole, dette e non dette. Dici:

“La
diagnosi…”

“Sì?”

“Non
sono sicura di avere capito bene.”

“Dica
pure.”

Non
dici: ho appena detto. Non dici: ho appena detto, le ho già detto: non ho
capito bene. Mi rendo conto che sarebbe meglio
per voi, e certamente anche per noi, se vi ammalaste solo tra medici,
senza dover dare spiegazioni, spendervi in parole scarne, costruire banali
semplificazioni e sforzarvi di ridurre tutto a poche frasi composte da poche
parole uguali o simili. Non dici. Chiedi:

“Mi
scusi, non voglio trattenerla, so che ha tanto da fare…”

“Prego,
mi chieda pure con tranquillità. Cosa posso chiarirle?”

“Innanzitutto:
è sicuro? E poi, che conseguenze avrà?”

“Non
sono io a dover essere sicuro ma l’esame, il risultato delle analisi. È quello
che non ci lascia dubbi, vede?”

Ti
porge una cartella giallo tuorlo dove giacciono lastre, fogli colorati, un
cartoncino con quattro polaroid attaccate storte e la fotocopia strisciata di
dieci righe in geroglifico medico d’ordinanza.

Guardi
e non vedi. Vedi macchie. Aree colorate artificialmente. Zone bianche, zone
nere, vuotopieno, lucebuio. Ma fingi: osservi, emetti una serie di sospiri
significativi, ti mordicchi il labbro inferiore (il che speri esprima tutta la
tua composta disperazione, soprattutto in contesto clinico), tossicchi. Ti
viene da ridere, reprimi.

Guardi,
dunque, con compunta attenzione. Poi, indicando col dito:

“Capisco,
credo. È questo? È qui?”

“Ma no,
ma no, mi dia.”

Riprende,
facendoli ruotare stizzito (addirittura? Così pare) sul piano della scrivania
di palissandro lucidata a specchio, i fogli di formato differente con il gesto
veloce e offensivo di un solo dito: poi richiude di scatto la cartella. Ora si
protende verso di te, affacciandosi al lato opposto dello scrittoio come
se, dal davanzale di una finestra, stesse osservando in strada passare passanti
che mai più rivedrà.

“Ascolti:
sono quattro. E quattro, capirà, sono quattro. C’è di buono”

(questa
è stupefacente: c’è qualcosa di buono) "che stando dove stanno non le dovrebbero impedire nessuna delle funzioni principali: parola, immagine, capacità di leggere e scrivere. E poi, a quell’età, anche il ritmo di crescita, capisce, è rallentato. Quanto alle conseguenze, cosa vuole che le dica…"

Sai benissimo che cosa vorresti che ti dicesse, e sai benissimo che non te lo dirà, che
non te lo può dire. Elimini questi cazzo di inizi di frase, se non può avere
pietà sia rapido, almeno
: ma nemmeno questo, dici.

“…
non posso azzardare previsioni. Sei mesi, un anno, due… Chi può dirlo?”

“Non
saprei. Lei?”

“Nessuno.”

“Ah.
Meglio così.”

“Già,
purtroppo.”

“Scusi?”

“Cosa?”

“Niente.”

Hai
perso il filo. Meglio? Peggio? Bene? Male? Purtroppo, per fortuna, bianco,
nero, poi, prima, verde, rosso, sul serio, é uno scherzo, come ha detto,
dottore? Sagittario? Cancro, signora, cancro. Davvero, divertente, ma certo,
sì, va bene, non va bene. Dici? Non dici.

“Tenga.”

Ti
passa un pacchetto di kleenex dal cassetto dove li tiene, evidentemente, al
buon bisogno dei casi come il tuo. Che cazzo di lavoro anche il suo, però,
dottore. Invece:

“Grazie”.

Ma non
hai da piangere. Tiri un po’ su col naso per gentilezza, stropicci il
fazzoletto, te lo passi sugli occhi.

“Allora,
diceva: quattro?”

“Sì.
Beninteso, per ora.”

“Beninteso.
Sì, certamente, voglio dire.”

“Due
qui”,

e si
tocca la base del collo, un po’ sotto l’orecchio destro: no, non proprio lì,
dottore. Un po’ più in alto; per l’esattezza più in alto di tre piani, stanza
31, terzo letto, in fondo. Tra l’orecchio e i capelli, i pochi non ancora
evaporati: ecco, ci siamo. È lì, dottore. Bene, vedo che comincia a seccarsi.
Ci avviciniamo al punto. Buon segno. Del resto non le chiedo simpatia ma
precisione: sa com’è.

“uno
qua sopra, e l’ultimo più verso l’ipotalamo. Per fortuna.”

“Davvero?”

“Davvero.
Sì, naturalmente. Le ripeto, può leggere, può scrivere. Si rende conto?”

“Sì,
perfettamente. Poteva andare peggio.”

(I
medici adorano sentirsi dire questa frase: poi, la sera, quando tornano a casa,
messi a letto i bambini, la riferiscono alle mogli, le inossidabili e atroci
moglidimedici, per compatire chi l’ha pronunciata: che forza d’animo, che
coraggio. E compatendo si sentono più buoni, meno drastici, sempre allo stesso
modo potenti, chiaro, ma in misura diversa: ritrovano, grazie alla dignità del
dolore altrui, la propria dimensione umana. Serviranno pure a qualche cosa,
d’altra parte, e a qualcuno, dolore e dignità.)

“Senza
alcun dubbio: poteva andare peggio.”

(I
medici adorano ripetere questa frase: li recupera a quella corazza di tecnica e
cinismo per loro ancora più essenziale dell’iscrizione all’Ordine. Tra poco,
ben lo sanno, di nuovo gli tocca la corsia, e di nuovo potranno cominciare a
dire tra di loro:

“Il 38
ha più cancro che fegato, davvero, pare un grappolo d’uva!”

“E
l’undici? Dico, l’hai visto l’undici da ieri? Le cellule le figliano come
conigli, diobòno, se mi dovessi ancora laureare potrei farci la tesi su quel
pancreas.”)

Vi
alzate entrambi. Lui poggia i pugni chiusi sui braccioli di cuoio della
poltrona, incassa un po’ la testa tra le spalle, il collo ancora forte, di un
bel colore compatto; tu raccogli borsa, sciarpa, kleenex nuovi kleenex usato
(non osi chiedere un cestino, né, prevedibilmente, lui propone “dia qua”) e
cerchi per tutto il posto giusto. E lo trovi. Incredibile.

Vi
tendete la mano.

“Arrivederci,
allora.”

Vi
stringete la mano.

“Arrivederci.
La ringrazio.”

Finito.
Via. Silenzio.

Anche
questa é fatta. Ora i tre piani: giri a destra, vai fino in fondo, un altro
corridoio, un altro ancora, la quarta porta, ecco la 31. Mano sulla maniglia,
spostamento d’aria, leggero. Prendi fiato. Panico. Prendi fiato, ho detto.
Quattro, e tutti lì di fronte, nel letto accanto alla finestra. A destra, per
fortuna. Così può camminare, guardare, riconoscere, chiedere la penna, mandare
una lettera, finire il libro, cominciarne altri ancora… Questo, vediamo. Può
vedere le cose, spostarle. Alzarsi, forse, e camminare, forse: con calma, molta
calma, e cura, molta cura. Con attenzione, che se cade si rompe: e forse, anche
se non cade. E forse, se cadrà, sarà perché è caduta già tanto, tanto, già
tanto tempo fa. E se non si romperà sarà perché in pezzi è da un pezzo che c’è
andata.

Quattro.
Vanno salutati? Uno per uno? Che dici? Non dici, no, naturalmente. Ecco un caso
in cui contenitore e contenuti vanno divisi con più attenzione che mai. E chi
può dire che non sia molto meglio, dopotutto: perché quel terzo letto in fondo
ti sembra diventato tutt’uno con chi lo occupa; e chi lo occupa no, non vuole
sapere. E così ti trovi ad avere un segreto, come quando eri bambina: solo che
questo non si dileguerà con l’età adulta. Ma sì, giochiamo. Chiamalo gioco:
oppure non chiamarlo ma giocalo soltanto. Giocalo prima che ti giochi.

“Buongiorno,
piccola.”

(Bacio:
miracolo. La stanza ai tuoi piedi non ha tremato, e sei ancora viva.)

“Buongiorno
mamma, dormito bene?”

“Mah.
Ho dormito, è già tanto. E tu?”

“Ho
dormito. È abbastanza. Ti vado a prendere un caffè?”

 

 

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