CARNALE

 
 

 

 

 

 

 
 

‘É l’ultima volta che prendo un autobus da
vergine. É l’ultima volta che vedo con occhi di vergine questo negozio di
dischi che conosco come un museo. Chissà se avrò mai un giradischi tutto per
me. Chissà se sarà facile leggermi in faccia, tra poche ore, che l’avrò fatto
per la prima volta.’


Era una giornata di dicembre, mercoledì o giovedì
ventisei dicembre, Santo Stefano. Il sole era alto, il cielo terso, l’aria
aguzza e fredda. L’autobus quasi vuoto lasciò il capolinea girando leggero
intorno alla piazza mostrandole il mondo in un cerchio perfetto. La città, che
per quel poco che ne conosceva, lei che da sola non usciva quasi mai e senza
comunque allontanarsi dal quartiere dove era nata e cresciuta, le appa­riva in
genere nemica, incomprensibile e ostile: quel mattino le riservava invece
all’improvviso una sorpresa, una cedevo­lezza che stordiva. Le strade, una dopo
l’altra, le si arrende­vano davanti e intorno.


“Lo so, vuoi fare l’amore. Con me.”


Era vero. Avrebbe preferito una domanda ma la
risposta sa­rebbe in ogni caso stata: sì.
E se lo ripeteva mentre sobbalzava per via del
manto stra­dale, che sostituiva all’asfalto della periferia i blocchetti di
porfido del centro.


‘Sì, voglio togliermi di dosso questi quindici
anni di in­fanzia dolorosa, muta e senza potere, sì, voglio schiodarmi per
sempre dalla grassezza triste che fino a poco tempo fa era an­cora me, sì,
voglio affilare la mia mente che si nasconde in corpo, tra le pieghe più pigre
del mio corpo, io voglio, sì, e verrò sola, verrò mentendo un mattino, sola con
una bugia verrò, lo voglio, sì. E metterò una gonna per essere più libera nel
passo, se dovesse cambiare il mio passo, se dopo dovesse cambiare, se mi
dovessero cedere le gambe dopo, se le ginocchia si dovessero fare molli ed
elastiche, se mai dovessi farmi più sfrontata dopo, se il mio equilibrio
dovesse mai dipendere dallo sguardo di un passante. Verrò e sarò io e intanto
non sarò nessuno, tu sarai tu ma io, io non sarò che un’ombra, sarò un rito e
un nome, sarò il tempo che passa.’


Si accorse di essere quasi arrivata: l’autobus
stava imboc­cando le curve dell’ultimo tratto, mostrandole una parte di quella
parte di città che non aveva visto mai ma che, via via, rispondeva
perfettamente alla descrizione che lui ne aveva fatto il giorno prima.


“Dopo la porta c’è un negozio di vestiti, con
l’insegna a forma di drago dipinta direttamente sul muro: poi c’é un bar
grande, un’edicola, un fruttivendolo – che sarà chiuso, ha la serranda blu – e
ancora un cinema, un negozio di mobili e un al­tro bar, più piccolo. Appena
gira a destra vedrai che il quartiere cambia; niente negozi, e le strade
cominciano a chia­marsi con nomi di pittori. Quando arrivi a Simone Martini
devi scendere. Vuoi che ti aspetti alla fermata?”


“No, nel portone. Aspettami nel portone. Non mi
perdo.”


Ed ecco il bar più piccolo: lì scese. Voleva
camminare, re­spirare, fare due passi, sola. Non conosceva niente, né il mar­ciapiede
né il cane che passò. Sorrise, giunta a Duccio da Buoninsegna, contò quattro
traverse, poi svoltò. Mentre cercava con lo sguardo la farmacia ricordando le
parole di lui:


“… due palazzi più in su vedrai un cancello,
rosso, con una grande kenzia. L’ingresso di sinistra, sarò là”,


si fermò. Si sentiva incollata sull’asfalto,
improvvisa­mente offesa. La vita le stava giocando un brutto scherzo, e quando
meno se lo aspettava: credeva, dopo anni, credeva con tutte le sue forze e non
sapeva a cosa, né perché.


Provò a respirare piano, con gli occhi chiusi.
Provò a re­spirare forte, con gli occhi aperti. Il disagio che avvertiva non le
apparteneva affatto, ne era certa, ma le bloccava il fiato più che se fosse
stato suo. Come se si trattasse di una conquista, di una scoperta, vide la
farmacia davanti a sé, splendente: sentì il bisogno di entrarvi, di confondersi
con la sommessa clientela delle feste. La trattenne il pensiero che tra gli
acquirenti delle pastiglie digestive, degli analgesici di pronto intervento
dopo il troppo alcool di Natale, il troppo cibo, le troppe illusioni di un
calore mancato che finivano in gastrite sicuramente si sarebbero aggirate anche
quelle persone, come sua madre o sua zia, dedite alla cura di mariti, padri,
figli, malati veramente, di malattie oscure e tormentose, i malati di mali dai
nomi indelebili, i davvero malati di mali inauditi. E allora, se fosse entrata,
sarebbe stato per sentire la voce del farmacista di turno chinarsi su una di
queste povere anime lacerate e sperse e informarsi della salute di qualcuno che
sarebbe stato in torto a soffrire in un giorno di festa. Solo ieri era Natale,
che diamine.


Non entrò. I passi le si fecero di vetro, schegge
di passi, mentre proseguiva. Procedeva lentamente, le mani nelle tasche,
lentamente, per avere lo spazio di pensare, come se fosse stata in viaggio,
poiché si sentiva in viaggio. E nel tempo imprevi­sto della lentezza, nella
città che finalmente le sembrava uguale ovunque, rifletteva:


‘Voglio partire, veramente, voglio andare sulle
rive di un lago, grigio di piombo. Cos’è questo rumore che mi entra nelle
orecchie dalla strada, cos’è questa pietà che avverto, dalle finestre basse,
dalle gonne che incontrano i miei occhi se non li alzo da terra, cos’è questa
pietà – e se lascio che si alzino, cos’è che mi commuove, perché devo sentire
il petulante tormento delle mosche, è dicembre, morissero! Vorrei andare a
comprare dei colori e finire il disegno, vorrei comprare per completare la vita
perché così, lo sento, le manca qualche cosa: ma che cosa non so, forse una
qualità, una sola e non più di una, quella che non so ancora afferrare e che le
manca, si­curo: è quella che adesso si trasforma in questo vuoto.’


Forse aveva soltanto fame e non volendo ammetterlo
restava sul marciapiede, a dirsi:


‘Del resto, so benissimo che è fin troppo presto.’


Non che lo sapesse ‘benissimo’, però sì lo
intuiva, per via dello stomaco, vuoto come non le sembrava di averlo avuto mai,
neanche quando aveva digiunato un giorno intero prima della prima comunione.


‘Tra qualche anno, forse, quando sarò più costante
e pen­sosa, allora. Avrò patito qualche vero tormento e porterò ve­stiti belli,
che avrò pagato io, allora: uscirò di casa, come oggi, avrò da spedire una
lettera, rimanderò di un giorno qual­che appuntamento, sarò libera. Allora.
Oggi è troppo presto per rimediare, sono ancora innocente, ho le mani pulite,
io, non so niente io, non mi chiedete perché mi guardano così. Che c’entro io.
Vorrei sapere solo come si fa, come si sposta il peso, e poi saprò. Sarò
libera, allora, quando uscirò dalle mie voglie, quando lascerò la clandestinità
che mi preme sotto i vestiti, dentro il maglione, dentro le calze, senza che io
sappia ri­spondere; a testa alta voglio andare, come il mio cane quando annusa
l’aria. Allora, non ancora, non ancora ora, che sto prendendo la rincorsa.’


Notò prima la kenzia, poi il cancello. La pianta
era più grande di quella che sua madre teneva nel salotto; ma era pur sempre la
stessa, identica, tanto che le venne da pensare come in quello stesso momento
tante figlie di quindici anni stessero entrando in tanti portoni, muovendo,
dopo un più o meno breve percorso, lo sguardo da una kenzia a un’altra, e tutte
per an­dare a fare la stessa cosa che stava andando a fare lei, e tutte come
lei credendo di compiere qualche cosa di isolato e di incognito; e invece
tutte, tutte, non facevano altro che eseguire un movimento previsto e niente
affatto isolato e men che meno incognito: se in quel portone o in questo, poco
im­porta.


Preceduto dal tonfo sordo dei passi in quel
momento l’uomo arrivò: erano di fronte. Non poteva non vederlo, adesso, e
certamente subito si sarebbero parlati. Tutto le parve già accaduto.


Se avesse conosciuto la domanda, allora avrebbe
risposto ringraziando e sarebbe fuggita. Tolse una mano dalla tasca, si ravviò
i capelli, si disse:


‘Ovunque io sia, ora, non sono né all’inizio né
alla fine di niente.’


Soltanto questo la aiutò a seguirlo, a entrare
nell’ascensore. Come furono accanto, in quello spazio stretto, riflessi
entrambi nello specchio gelido e pulito, le piombò addosso la sensazione di
essere dove voleva: ma lo sguardo di lui era lo sguardo di uno sconosciuto,
pericoloso e anonimo più del necessario.


Desiderava con tutta l’anima di svenire: perdere i
sensi, ecco quel che voleva. E svegliarsi coi sensi riacquistati, senza fatica:
un mancamento per mancare a se stessa, alla promessa di sé.


Sentendosi affogare, sorridendo in accordo alla
superficie delle cose, si accorse di colpo di non avere alcun ricordo. Niente.
Neanche di quelle ultime ore. Aveva, sì, la cognizione di curve, rettilinei,
discese, ma non avrebbe più saputo dire quali, dove. Mai più, ne era sicura.
Così com’era certa di sa­pere pensare, di aver pensato, anche soltanto pochi
istanti prima; eppure le pareva di non avere più pensieri, di non pen­sare più,
da mesi.


Senza pensieri, senza ricordi, non possedeva che
il deserto dentro, la mano in una tasca e un sorriso altrui sul viso. Non si
aspettava questo e questo aveva. Lui taceva.


‘Ma che stupidaggini,’ si disse, mentre sognava di
arraffare quel mattino e portarselo via per disegnarlo poi, con calma,


‘che stupidaggini… Ma non volevo forse proprio
questo, io? Non era que­sta l’estasi, quel che cercavo di nascosto, mentre
quest’uomo mi guarda in faccia convinto di qualcosa: e perché non dovrebbe?’


Perché mai tutti, come lei, avrebbero dovuto
diffidare, sentirsi sull’orlo: e di che cosa, poi?


L’ascensore, come poco prima l’autobus, arrivò.
Tutto aveva una meta, quel giorno, un percorso con una destinazione alla fine,
tutti gli oggetti compivano le proprie traiettorie senza incertezze. Lei sola
sembrava lasciarsi corrompere dal tempo, che sentiva scorrere con una frequenza
autonoma e un anda­mento selvatico e scontroso; solo di lei controllava lo
sguardo e il respiro, solo la voce abituale di lei aveva sostituito con
un’altra che non poteva riconoscere, poiché non conosceva, e che restava a ogni
buon conto muta.


Sul pianerottolo pensò:


‘Se supero questa porta mi riempirò di rughe’.


Pensò anche:


‘Se non sorriderò davvero, entrando, mi
crolleranno addosso tutte le case che avrò, in seguito, nel mondo’.


Pensò questo e altro: e stava per capire di avere
ancora soprattutto un cuore, pensieri da pensare, insomma di essersi salvata
per il momento, pensava, quando lui le tenne il braccio sinistro con la destra,
la fece passare avanti a sé e richiuse la porta alle sue spalle. L’appartamento
era vuoto solo da pochi giorni, da quando il padre di lui era partito, e di già
aveva l’odore della muffa.


‘É l’odore che si sente prima di morire.’


Questo pensò. E seppe in quel momento che non ci
sono, no, immagini in successione, niente film della tua vita che ti scorre
davanti agli occhi, bensì solo un odore, un unico odore penetrante segno di un
altro più avvolgente e secco, più spumoso e più funebre, come quello che si
sprigionava ora dalla carta da parati di quei muri, abbandonata, stesa,
rinsecchita, tana di carta di infimi ragnetti che si nutrono di polvere nella
polvere in cui vivono. Poteva quasi vederli. Avrebbe potuto disegnarli, più
tardi, anche a occhi chiusi. Non adesso, però. Adesso non poteva andarsene. Era
fatta.


Era uno scherzo (questo lei non sapeva, né poteva
saperlo), era il destino ad aver scelto lei, che avesse preso lei e non
un’altra, ad averle mandato quell’uomo e non un altro. Un uomo! Poco più che un
ragazzo, in verità, ma che poteva dire già di ricor­dare cose avvenute prima
che lei nascesse. Le era sem­brato sufficiente a farne un uomo. Il destino o
uno scherzo: che tutto stesse per succedere davvero, lì e non altrove, a loro e
non ad altri e soprattutto a lei.


L’appartamento era più o meno come se l’era
immaginato: ab­bastanza qualunque da non potersi imporre al suo ricordo per
troppo tempo, con quei colorini smorti e in eterna – suppo­neva – penombra; i
pavimenti, in marmo bianco e rosa, parevano di grasso congelato. Ne ebbe una
nausea lieve, che subito re­spinse. I mobili però la rincuorarono: pochi e
senza dubbio vuoti o quasi, antichi dell’antichità in contanti, le dicevano:


“Non ricorderai, non ricorderai, non saprai più né
dove né quando. Ci ritroverai in altre case, un giorno, e nessuno ti spiegherà
perché; nessuno ci sarà per confortarti e sentirai finalmente pesarti gli anni
nelle ossa. Per sempre, sempre, sempre, e non saprai perché…”


Sentiva il desiderio di andarsene in cucina a
farsi un tè e prepararsi un uovo à la coque e andarselo a mangiare in balcone –
se mai ce n’era uno – con un cucchiaino d’argento.


Voleva essere sola, soprattutto.


Voleva avere caldo, spogliarsi sì, ma per il
caldo, voleva un foglio di carta e una penna, ma non avrebbe scritto. Si
sarebbe seduta a un tavolo, che fosse stato sotto una fine­stra!, e avrebbe preso
tempo, quello che non prendeva mai. Se­duta, chiusi gli occhi, avrebbe
camminato col pensiero nella mente e solo allora sarebbe ritornata alla casa,
al tavolino sotto la finestra, agli occhi, e avrebbe disegnato. Quei ragnetti
malefici o soltanto la linea della sua paura, una sottile linea nera che
avrebbe attraversato il foglio, da sinistra a destra, taglian­dolo in obliquo
in parti diseguali. Ci dovevano essere, in quella casa grande e ricca, un
tavolo e un uovo, un balcone, una finestra e un foglio, un cucchiaino. Gesù, se
dovevano es­serci: tutto doveva essere normale, e quella, quella doveva es­sere
la vita.


Aveva già dimenticato – quasi – la presenza di
lui, quando venne investita in piena bocca dello stomaco da uno dei suoi baci.
Li conosceva bene, non ne voleva affatto: aspettava l’ignoto, voleva togliersi
la pelle. Girò la testa, la faccia, contro il muro, scivolò di lato, si tolse
di mezzo. Le fine­stre, notò con dolore eccessivo, erano chiuse, le serrande ab­bassate.
Lui continuava a non parlare, nemmeno adesso. Si limi­tava a osservarla,
allontanandosi: sembrava che le stesse prendendo le misure. Tentò di
concentrarsi sul rumore che face­vano le automobili (poche) cinque piani più in
basso. Come palle sopra un biliardo nuovo rotolavano più che correre. E nessuno
che ascoltasse una radio, nessuno. Si sorprese a chiedere:


“Non ci sarebbe un po’ di musica?”


Subito sentì come la sua voce rimbombasse inesatta
nella stanza. Quella voce che da allora in poi non le sarebbe appar­tenuta più,
se non di rado. E poi, naturalmente, la musica arrivò spegnendo il silenzio
senza rimedio, più imprecisa della sua voce, più inesatta che altro. Le note
aumentavano e calavano, crescevano e cadevano, avrebbe detto che stessero
crollando in quello spazio in cui non si trovava. Un fragore di percussioni le
portò la visione di una chiostra di denti in procinto di mordere: ma non lei.
Perché lei, eccola la conquista: lei era forte. Più della tromba tagliente che
le dava i brividi – aveva anche freddo, davvero, in quella casa così vuota di
vita – era forte, e chi poteva contrastarla, frapporsi tra un giorno, questo, e
tutto il resto del tempo? Lei soltanto poteva: ma non lo avrebbe fatto.


Quando lui le parlò lei gli sorrise, sperando che
non si fosse reso conto che non aveva capito una parola. Sorrise per
distendersi, per piacergli, per augurarsi buona fortuna.


“Va bene?”


Fu costretta a confessare la sua assenza, a
chiedere che cosa, scusa.


“Io mi faccio una doccia – va bene?”


“Sì,”


dette un colpo di tosse, si schiarì la voce che le
si era arrochita,


“immagino di sì”.


Come fu sola si accorse suo malgrado di averne, di
ricordi; pochi, precisi, ordinati, tanto che si stupì di averli persi poco
prima. Rincuorata, si guardò intorno. Di fronte a un divano – scomodo, rosso
scuro, spigoloso – un tavolino basso in vetro e legno e un cesto di riviste.
Alle pareti una foto di lui da ragazzino, due o tre quadri e una libreria, con
i montanti di metallo nero e gli scaffali opachi di legno marrone; d’angolo,
sotto la finestra (chiusa) la scrivania, e una sedia. Sapeva – e aveva ragione
– che a quella scrivania lei non avrebbe disegnato mai e che mai avrebbe
letto anche una sola pagina di un libro che venisse da lì. Si sentiva
rinchiusa: andò ad aprire la finestra ma due sbarre sottili corre­vano di lato
alle serrande. Le tornarono i brividi. Sentiva nemico quell’acciaio, messo lì
più per impedire di uscire che di entrare. Ma a chi? Un antifurto al quinto
piano? Che assurdità. Armeggiò per sbloccarle, senza troppa convinzione né
esito, e armeg­giando comprese le mosche di dicembre, il loro tormento e la
loro ispirata pietà.


Per l’ennesima volta, in quel mattino che più che
intermi­nabile sembrava non iniziare mai, si chiese se non fosse possi­bile che
la vita le concedesse, almeno una volta ogni tanto, una pausa, una sosta, come
un’ansa tra i giorni per sedersi e aspettare sé stessa, senza preoccuparsi per
le cose e per il senso delle cose.


Fu allora che accadde.


L’acqua smise di scorrere, la maniglia brunita
della porta del bagno si piegò verso il basso con un suono stridente e le tornò
la nausea.


Passò in rassegna tutte le cose che aveva visto,
scorto o guardato da quando aveva aperto gli occhi quel mattino e tutte le
rivelarono la loro profonda oscenità, il loro crudele e sciatto apparire. Paste
rotonde e opache sul bancone del bar dove aveva fatto colazione, spazzolini da
denti intatti e ritti nella vetrina della farmacia, la sigaretta furtiva
dell’autista dell’autobus che l’aveva portata fin lì, le coppie che aveva
incontrate per via: misero, mesto, il mondo; il mondo grondava squallore e la
impiastrava tutta, dentro e fuori. Se non avesse mai amato sarebbe stata salva.
Con i sensi in disordine si vide salva dalla vita ed eternamente morta. Niente
ne­mici, niente paura.


Sedette sul divano.


Fu allora che accadde veramente.


Prima che potesse rendersi conto che stava
succedendo a lei, e prima ancora, prima che potesse rendersi conto che stava
anche solo semplicemente davvero succedendo, e proprio lì, proprio in quel
momento in cui lei era, senza dubbio e nonostante tutto, esattamente viva, lui,
in perfetto silenzio, ancora umido e con indosso niente altro che un ruvido e
anonimo accappatoio blu, le andò vicino, le si sedette accanto, le mise una
mano sulla schiena e le abbassò la cerniera lampo.


Lei cercò di parlargli, ma in parte non sapeva
cosa dire, forse voleva dire:


“No, non così di fretta!”


o invece:


“Sì, ma non in questo modo…”


o ancora:


“Lasciami, e lasciami parlare!”


Oppure che la facesse stare zitta, ma non di quel
silenzio, lo sapeva lei come, o magari va bene, non lo sapeva affatto, ma così
no così no questo no non così, e che aprisse la finestra, e togliesse quel
disco, e ne mettesse un altro, e accendesse una luce, e non mettesse niente, e
non togliesse niente, e non sono io questa, e stesse fermo ti prego resta fermo
tu stai fermo ti prego un momento uno solo, cercò di parlare ma non fece in
tempo perché mentre cercava di capire che cosa gli volesse chiedere davvero
l’altra mano di lui le piombò sulla bocca che non aveva fatto in tempo ad
aprire e con un movimento molto violento e niente affatto forte la distese a
faccia in sotto sul divano, con il vestito oramai calato che le bloccava i
polsi, con la bocca schiacciata contro il cuscino bianco comparso dal nulla che
lui le premeva sul viso come una pietra, con il corpo di lui pesantissimo che
la teneva ferma con l’altro braccio dalla nuca in giù, e lei poteva solo
sollevarsi di poco dalla saliva che le usciva a fiotti, tra i denti che non si
sarebbero spezzati e la lingua molle, poteva solo sollevarsi ma di poco,
pochissimo, e già doveva essere troppo perché allora lui sibilava:


“Mordi il cuscino e non urlare. Piantala. Stai
buona”.


Così lei fu costretta a capire che quel giorno se
tutto le sembrava un incubo era perché lo era, e poi nemmeno, perché se apriva
gli occhi non si svegliava affatto e il buio non finiva, dio quel buio di
stoffa e piume e di saliva e lacrime, che le uscivano a fiotti insieme a certa
bavetta dal naso e dalla bocca che le ricordò quella delle lumache quando le
schiacci con il piede; e intanto anche sangue le usciva, no, non da lì, non da
dove se lo era aspettato dopo­tutto, non da lì, da qualche altra parte laggiù,
da un dove che non sapeva nemmeno di possedere, non così comunque, non così,
non così tanto né con questo male ignobile, duro, cupo, che le sfondava per
prima cosa gli occhi e dopo il cuore e dopo il resto.


‘Basta che non diventi cieca.’


Questo osò chiedere, ma a chi. E poi, mentre
affogava nei propri ignoti liquidi,


“Per favore…”


disse, ma lei per prima non lo sentì: e come
poteva, se lui urlava, lui, non lei, ne era certa, lui le urlava e pesava e le
soffiava e gridava sillabe senza senso e poi di nuovo le pesava e dentro e
addosso e non smetteva di pesarle e schiantarla, zitta diceva, zitta, e come se
non fossero bastate le lacrime, la saliva bavosa, il muco e il sudore gelato, e
il sangue, gli intestini le esplo­sero, e poi tutto finì.


La nuca libera, la schiena libera, di colpo.


Lui le passò davanti agli occhi: li aveva ancora e
ancora le davano uno sguardo, al quale era consegnata, da quel momento in poi,
per sempre. Bocconi, le vertebre una per una doloranti, ne vide solo le
ginocchia e i polpacci, scuri e pelosi, e poi gli stinchi e le caviglie e i
piedi coperti da calzini di filo beige.


Non sapeva da quanto tempo ma di nuovo l’acqua
scorreva, da qualche parte, in fondo alla casa. Aprì la gola.


“É il contrario di un miracolo.”


Si disse, a bassissima voce.


“E io – non morirò, non morirò mai più.”


Voleva piangere, voleva respirare, ma i polmoni le
erano crollati, il corpo intero le era crollato in petto.


‘No, non morirò mai più.’


Questo pensò, prima di non morire.

 

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Ringrazio Collane di Ruggine (qui http://collanediruggine.noblogs.org/gallery/3044/ruggine.pdf potete scaricare l’intero primo numero della rivista) e reginazabo per avermi chiesto di ripubblicare  Carnale, già uscito nel 1995 in Giorni Violenti – racconti e visioni neo-noir, Datanews, Roma 1995. Carnale è rilasciato sotto licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia

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