DONNA IN NERO

 

 

“Il vivere ha di queste cose: ogni tanto si rimane a zero.”

Clarice Lispector

 

  

 

 

Lei
è nel bagno, seduta sulla tazza. Sta leggendo un’intervista a Kubrick sulla
guerra. Legge, e si chiede come sia stata tradotta, se non ne abbiano stravolto
il senso, dopotutto.

Ma
che cosa importa. Che cosa importa.

Non
è di questo che vorrebbe parlare, non di questo vorrebbe scrivere. Vorrebbe
come tutti scrivere quel che non è stato ancora scritto, naturalmente. Exultate
et jubilate
, per esempio: ma le hanno letto le carte proprio ieri:

“Ti
vedi come un angelo e gli altri come un diavolo”.

Niente
Exultate. Allora un racconto furibondo, infernale, con lei – non lei che
scrive, la sua protagonista – che entra nella sala da pranzo della casa dei
genitori e inizia a sparare e spara e spara, sul padre, sul fidanzato, su un vicino
di casa in visita –

Lo
so che è successo davvero, lo so
”,

 pensa ad alta voce, mentre da un pezzo ha
smesso di fare la pipì, di leggere l’intervista con Kubrick, perfino di
accorgersi del freddo e dell’odore di umido nel bagno, 

ma
solamente nella realtà: nessuno ne ha mai scritto, e allora? Perché non io?

 sulla madre, senza ucciderla, e poi, al
processo, interrogata:

“Potete
spiegare alla corte se le ragioni che vi hanno spinto…”

avrebbe
risposto solamente:

“Per odio”.

Odio
secco, odio puro. Un attacco fulminante, certo. E poi? Dove l’avrebbe portata
tutto questo?

Attenta”,

si
disse, accigliata,

stai
ricominciando con le domande sbagliate. Peggio, con le pseudodomande. Stai
zitta! Zitta! E scrivi
”.

È
bastato poco, imporsi di tacere, ricordarsi la regola – sii salda, stabile,
centrata – per distendere il viso. Il racconto felice verrà, deve venire. Se
avesse perso questa speranza, peggio: questa certezza, si sarebbe incamminata
da nessuna parte, su nessun sentiero con un cuore. Sorrise. Quanti anni
erano che non ci s’annotava più quella frase sul diario, sull’agenda, quanti? E
oggi, sono altri anni. I suoi. Suoi, delle altre e degli altri, anche, lì e in
quel momento: di quelli che sarebbero venuti non sapeva, non poteva dire.

Terribile:
non potere.

Ma poi, che sciocchezza, perché parlare di non potere,
quando lei poteva; non era asserragliata tra le montagne o stretta da una morsa
chimica, non lei, né malata (per quanto ne sapeva) né povera, non più di tanti
altri perlomeno, o infelice: soprattutto infelice, non poteva (ecco che cosa
non poteva) dirsi. In una stanza, di là dal corridoio, in un letto quadrato
l’aspettava un uomo. Sarebbe stata abbracciata, tenuta stretta fino a far
scomparire ogni dubbio, ogni pigrizia? Forse.

Sì,
erano altri anni, oggi: che la guerra è finita. Lo dicono tutti, deve essere
vero: lei sa che non è vero, però ci si aggrappa. È un suo diritto avere paura
e aggrapparsi: l’ha imparato fin troppo bene, se l’è ripetuta fino alla nausea.
Ma ora non ha la nausea, ha fatto la pipì ed è rimasta seduta a leggere.

Poi
ha smesso e ha iniziato a pensare.

Il bagno è silenzioso, un po’ freddo e forse troppo
illuminato ma piacevole. Quasi l’unica stanza dove si ha diritto a stare soli.
E sola, raccolta nel proprio ventre rilassato, ricomincia a leggere. Le parole
le rimandano altre parole: nessuna immagine per fortuna, nessuna visione
purtroppo. Ogni parola le parla della parola successiva e le ricorda quella
precedente. È sempre stato così, per lei, fin da bambina, fin da quando ha
imparato a decifrare il grande quadro della scrittura. Le lettere l’hanno
sempre portata ad altre lettere, una parola a un’altra, una frase a un’altra,
finché non subentrava un senso di vertigine, da un romanzo a un paesaggio e il
paesaggio alla descrizione che qualcuno ne dava in un racconto e il racconto un
sapore, il sapore a una fame, la fame a una frase per soddisfarla o per
lasciarla aperta, e adesso questo; voler essere lei quella che scrive, lei
quella che rimanda. Lei quella che nutre, quella che affama.

Ed
ecco che quell’odio, l’odio di quel racconto che non ha scritto (che non
scriverà?), non saprebbe decifrarlo, e ha timore di rimandarlo (è pavida?), di
diffonderlo, di contagiarne l’aria intorno: per questo non lo scrive, eppure le
sembra una gran perdita. Non saperlo fare. Si chiede addirittura da dove venga
anche la sola idea di un racconto del genere: ma quando pensa, se pensa (e
pensa anche che non bisognerebbe più pensare, mai mai mai più), lei pensa:

Io…

e ricorda. Nel pomeriggio ha dovuto leggere una decina di
racconti, per fortuna brevi, scritti tutti in rigorosa, singolare – così si
dice – prima persona. E ha provato odio per tutte quelle misere esistenze tanto
convinte di essere attraenti, di avere qualche cosa da raccontare (salve poche
eccezioni), tutti quegli “io” che si sconciavano nell’irrilevanza, invece di
farne la propria grazia: non essere nessuno, e addirittura, forse – col passare
dei secoli, e non ce ne sarebbero poi voluti molti, se non altro – non essere
nemmeno esistiti, ma avere raccontato, oh sì, avere raccontato. Cose.

Lei
è nel bagno, seduta sulla tazza. Sta leggendo un’intervista a Kubrick sulla
guerra. La guerra che è finita. Quando? Un anno fa, di questi giorni. Ma quale
guerra è finita un anno fa, di questi giorni? Nessuna. Nessuna, nessuna.
E lévati quelle vesti nere, pazza! Smettila di stare in lutto, e per chi, per
che cosa, poi? Oh sì, avere raccontato cose, invece di dichiarare e combattere
guerre. Avere fatto la pace con sé stessi. Invece. Invece, niente. Invece di
che cosa, poi? Si alza, si lava, s’asciuga, si cambia per la notte. Un uomo
annuvolato l’attende di là, nel letto. Le chiederà:

“Che
cosa hai fatto tutto questo tempo?”

E
lei non potrà dirgli che è nata e cresciuta varie volte e che ogni volta ha
dovuto ricominciare dall’inizio e nessuna delle volte è arrivata fino in fondo.
Ha avuto parenti, amiche, stanze e tavoli e brocche per l’acqua e per il latte,
ha intravisto verità, fedi, perdite e sentimenti. Ha decifrato lettere (sempre,
ancora) e testamenti. Ha studiato lingue e alfabeti, ha imparato a nuotare
sopra e sotto l’acqua, sa accendere un fuoco ma non andare in bicicletta
(questo lui lo sa già) né tanto meno guidare un’automobile e crede che non
imparerà, non se continueranno a rimproverarla, mai fatto nulla per un
rimprovero, mai, nemmeno quando sembrava puntare i piedi e scalciare gridando:

“Ce
la farò, questa volta sono sicura che ce la farò!”

Macché.

“Che
cosa hai fatto tutto questo tempo?”

Lei
vorrebbe rispondergli: che in tutto questo tempo s’è presa cura d’infiniti
gatti, di un porcospino che però morì, di una cagnetta, un topo, due tortore
che divennero sei nello spazio di un giorno o poco più, qualche rondine, un
rospo.

E
tutto questo non interessa a nessuno.

Cos’altro?
Ha sognato bambini, ha dipinto, ha disegnato, ha guadagnato – di rado – e
speso, rapidamente, senza troppo pensarci: e ha molto aspettato.

Una
casa tutta per sé, un visto nuovo sul passaporto, una vita nuova e diversa.

Tutto
questo tempo.

Ha
fotografato la neve contro un muro di Praga, ha conosciuto la nebbia dei Kew
Gardens e quella degli immediati dintorni di Assisi, e c’era un orizzonte così
limpido fino a Perugia e oltre, più in là, più in là, e ancora più che limpido
in Cornovaglia, in un posto chiamato Zero Point dove per la prima volta ha
visto le pecore Shetland e insieme l’oceano, in basso, a precipizio: diritto e
grigio fino alla costa Est del nord America; odore indimenticabile l’odore di
Zero Point, tra Eowyinn e un posto bianco e battuto da spruzzi freddi che si
chiamava forse Point Loma, paesi meno che paesi, luoghi, punti che non ha
ritrovato più su alcuna mappa; e ancora ha camminato, schiena e capelli al
vento nella pioggia e nel sole a pochi metri da casa, e nello stesso modo ha
camminato e riso in altre strade, città lontane decine di migliaia di
chilometri da casa, come tutti.

Vorrebbe
dire tutto questo. Non può. Sa che lui le ha chiesto solamente:

“Che
cosa hai fatto tutto questo tempo?” intendendo questo tempo nel bagno, e allora
non c’è niente da fare, non si può rispondere.

A
volte non c’è niente da fare, e allora si fa la pipì.

Proverà
a dirglielo.

Lo
toccherà in qualche modo, sulla testa, sul petto. Si sorrideranno guardando in
due direzioni diverse. Avranno voci diverse, hanno diversi colori, altri
ricordi. Glielo dirà:

“Che
cosa ho fatto? Niente. A volte non c’è niente da fare, e allora si fa la pipì”.

Lui
non capirà. Risponderà qualcosa, ma sta già quasi dormendo, non si capiscono le
parole, le sillabe escono tutte insieme e si perdono subito. Si ameranno lo
stesso. Domani, forse, scriverà: domani, tra un anno. Più tardi. Adesso no, non
ora che è ancora più tardi di così.

“Dormi,”

gli
dirà quasi nel buio, commossa e chi lo sa perché,

“dormi.
Persino a Baghdad si dorme qualche ora”.


 

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