VOLO ovvero doppia storia dell’unica visione del doppio uccello

 

 

 

 

 

 

 

Raccontano,
generalmente nei lenti tramonti di paese – ma da oggi forse inizieranno a
parlarne, o meglio a dirne, con la massima semplicità possibile, anche negli
aggrovigliati tramonti di città – che in un lago non lontano da qui viva un
uccello del quale non si può sapere la natura, se non che essa è bianca o
comunque chiara, e rapido il suo volo ascendente.

Il racconto, in un tramonto che era cauto per pudore e passione, e non
per pigrizia né per prudenza o paura, non giunse da voce umana, né animale
peraltro, bensì dalla forma delle ali di quell’uccello mitico: esse sbucarono
insieme al suo corpo saettante dalle acque del lago di cui non dirò il nome, e
si proiettarono in aria con una rapidità percepibile e festosa, perciò
miracolosa. Si dice, dello splendido essere volante, che un suo gemello viva
nelle profondità vulcaniche di quello specchio d’acqua; e che essi si diano il
cambio tra i due elementi ogni dodici ore, l’uno inabissandosi in quello che
l’altro abbandona.

Ma può darsi anche che sia quello che fu visto raggiungere in un solo
movimento, o gesto, l’aria, colui che si inabissa, e che sia l’altro,
tuffandosi nel grigio rosato dell’aria di quel tardo crepuscolo, a raggiungere
i cieli, o quelli che egli considera o chiama o pensa come cieli, laddove noi
umani li consideriamo e chiamiamo e pensiamo come abissi. E può anche darsi che
essi siano uno solo, e che a noi umani non sia concessa che un’unica visione
del loro doppio volo, o dell’unico volo di quel doppio uccello. Del resto,
tutto può darsi, molto è dato, e molto si darà, e nessuno sa quanto, giacché
siamo certamente – se mai qualcosa è certa – noi umani a chiamare specchi
d’acqua i laghi.

Il tramonto proseguì e noi ci spostammo sulla superficie del pianeta,
dove avemmo la ventura di assistere ad altri prodigi non meno miracolosi, quali
una gatta nera con un piccolo, pure nero, annusare bianche pietre; e una
finestra arrivare fino al pavimento di un primo piano, e dare così su di
un’ampia stanza buia, contenente un’unica seggiola sulla quale riposava un
vecchio, le braccia chiare, i capelli appena mossi dalla brezza della tarda
sera, lo sguardo centrato sul proprio sereno orizzonte interiore.

E ad ogni crepa dalla quale sbucasse una poca cosa di muschio, ad ogni
ombra che sulla strada del ritorno mi circondasse l’orlo dello sguardo, ad ogni
cosa insomma che anche lontanamente potesse sembrare un evento, o l’annuncio di
un evento, vale a dire l’evento di un evento, un lieve sommovimento in petto
simile nel suono che nessuno udiva tranne me a quel suono d’ali che neanche io
avevo potuto udire mi riportava a quella traiettoria, a quello scarto tra acqua
ed aria, in cui tutti ci sorprendemmo a desiderare di vivere; ovvero transitare,
visione e non immagine, congiunti finalmente al nostro doppio, da lui uniti e
da lui divisi.

Noi come quell’uccello, e quell’uccello come l’altro, mitico, apparso e
scomparso, fratello immaginario di una natura specchio di sé stessa e della
nostra lingua inesistente per dirla, noi come quell’uccello e quell’uccello
come il nulla.

 

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