IL SOGNO DI MICHELE

 

 
 
 


 

 

 

 

 

 

Quella mattina (i primi di luglio come ora, proprio un anno fa) Michele,
sul terrazzo, mi disse di avere fatto un sogno.

Vedeva la città dalla finestra della sua stanza, però molto dall’alto,
come se il suo palazzo avesse avuto almeno venti piani e la sua casa se ne
stesse diciamo al diciottesimo. Nel cielo della città, tra i tetti delle case e
sulle piazze, volavano in formazione centinaia di gatti, di tutti i colori ma
principalmente neri. Volavano perché avevano le ali: ed erano fatte di libri
aperti, con le pagine che battevano l’aria, nel silenzio della città (nei sogni
di Michele la città è sempre silenziosa).

Affacciato sperava che i gatti gli
passassero vicino per leggergli le ali, e allungava le braccia una alla volta
nella speranza che quelli lo vedessero. Purtroppo gli animali sembrava che
nuotassero nell’aria, che una corrente li portasse da destra verso sinistra o
una marea, e per quanto Michele si affannasse non lo notavano nemmeno. Così
continuava a guardarli da lontano.

Poi o scendeva in strada, oppure andava in una stanza con un balcone
(dodici mesi sono tanti e io ricordo male, e in ogni caso già nel sogno questo
passaggio non era affatto chiaro), Michele finalmente accarezzava un gatto, e
nell’accarezzarlo lo leggeva: gli sfogliava le ali, procedendo dalla fine del
libro verso l’inizio. Supponiamo che al gatto piacesse, visto che non si
muoveva; comunque, Michele era lì accovacciato che leggeva.

O meglio, non leggeva, non capiva una sola parola né una lettera di
quella lingua e forse non l’aveva vista mai: ma capiva (sapeva, intuiva, aveva
quella certezza che si ha talvolta, in sogno) di avere tra le mani tutta la
storia della vita di un uomo, e dolcemente leggendola la carezzava.

La sera stessa sullo stesso terrazzo ho raccontato il sogno di Michele. M’hanno chiesto di scriverlo. Non so se posso.

 


 

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