Uscita dalla macchina il vento mi prese alla
sprovvista, e lo scialle mi si impigliò nella portiera che sbatté, chiudendosi
con uno scatto sulle frange nere. Sentii ridere, tante voci che ridevano, tante
che mi girai di scatto, e gli occhiali da sole nel girarmi mi caddero dal naso:
le risate salirono di tono, e abbacinata vidi nel cortile dell’edificio
grappoli di bambini che ridevano guardando la straniera, che ridevano della
straniera incapace. Goffa, felice mi scoprivo al di là di ogni dubbio, e
oggettivamente mi sentivo, straniera: qualche cosa mi veniva a sottrarre all’abituale
dolore che mi era inevitabile provare sentendomi tale anche quando non lo ero,
anche dove non avrei dovuto esserlo. Risposi alle loro risate ridendo; intanto
ero riuscita a liberarmi, e raggiunsi i miei due uomini al caffè sul lato
opposto della strada. Mohammed aveva già ordinato il tè, e mentre aspettavamo
mi chiese che gli dessi carta e penna, per favore, così lui avrebbe scritto per
me il suo nome in arabo e in francese. Non avevo che il diario: lo presi e lo
poggiai sul tavolo di legno. Un refolo di vento lo sfogliò, aprendolo a una
pagina in cui c’era un ritratto del mio amico dormiente, frutto dei giorni
della febbre e del riposo. Lo guardò attento, con un’attenzione inquietante, e
lentamente, scandendo le parole, disse:
"Anche qui, oramai, i giovani disegnano
ritratti. Facce, persone: sono i tempi moderni, tutto cambia, adesso chi lo
vuole può persino mangiare e bere vino, al ristorante, come i francesi. Dicono
che una cosa è la legge coranica, e un’altra la legge dello stato. Certo, ci sono
cose buone nel progresso, però la volontà di Allah non può cambiare, né lo può
la sua legge, così, da un giorno all’altro, a piacere degli uomini. Ma questo
non vale per voi, naturalmente",
aggiunse, sfogliando il diario alla ricerca di un
foglio bianco,
"perché voi due siete cattolici, mi
sbaglio?"
Era difficile rispondere. Come fargli capire che noi
non credevamo, come capirlo noi stessi? Tentai: gli dissi che pensavo a Dio,
che sentivo Dio, certe volte, che ne avevo avvertito la presenza anche soltanto
pochi giorni prima, nel cortile di una moschea di Tunisi; ma le mie parole lo
irritarono, e cominciò a ripetere
"Ça va, Tunis, ça
va",
sbuffando insofferente, finché non arrivarono i tè
profumati di menta, in bicchieri di vetro sottile. Mohammed bevve un po’ a
piccoli sorsi: poi prese la matita, ne bagnò la punta con la lingua e, trovata
una pagina pulita, con una riga verticale la divise in due. Quindi sul lato di
destra iniziò a tracciare parole arabe, dai molti svolazzi; io lo guardavo
scrivere, le dita scure e affusolate strette intorno alla matita blu. Arrivato
a metà foglio si interruppe, si portò alle labbra il bicchiere appannato, e
bevve ancora a sorsi brevi e lenti; infine riprese la matita e sulla pagina a
fronte scrisse, o forse dovrei dire disegnò, le traduzioni: il suo nome,
anzitutto, come promesso; poi "guide
arabe des Berbères", "12,
Rue Lénine, Gabés", e in fondo "Matmata, vallée des Berbères (peuple)".
Io ripresi a chiedermi dove stessimo andando, a
vedere che cosa, e insieme, oramai, lasciavo che la mia curiosità si mantenesse
intatta per il momento in cui fossimo giunti nella vale dell’antica battaglia,
nella dimenticata valle bérbera, ed ero grata al mio compagno per quello stesso
sentimento che lo portava a non chiedere nulla di Matmata ma piuttosto degli
altri villaggi della zona, della scuola che vedevamo oltre la strada, dei
bambini in cortile. Mohammed rispondeva con la sua voce seria, ma io non
ascoltavo. Bevevo il mio tè troppo caldo e mi lasciavo cullare dalle voci e
dall’ininterrotto tintinnio del caffè: cucchiaini sul vetro dei bicchieri, millimes sonanti sul bancone di zinco
nell’interno, perle di rosari dell’incessante Islam dei vecchi. Da una mezz’ora
il vento era calato, ma il sole che batteva forte sulle cose non arrivava a
scaldarle. Ritornammo alla macchina, cercando con lo sguardo i bambini in
cortile; ma oramai la ricreazione doveva avere avuto termine, perché solo la
polvere e un eucalipto malato lo occupavano, e il sole.
Attraversammo terre basse in compagnia di ben poche
automobili; un taxi collettivo ci superò strombazzando, e noi accostammo per
aspettare che si depositasse tutta la polvere che aveva sollevato. A un tratto,
in quello che a me sembrava un punto assolutamente arbitrario e indistinguibile
da qualsiasi altro punto, Mohammed quasi gridò che girassimo a destra.
Terminata la curva, nello spazio di pochi chilometri il paesaggio cambiò: non
più le piante basse, le sterpaglie, ma oasi coltivate in lontananza, a datteri
e olivo, e non più l’orizzonte piatto e grigiastro del Sahel tunisino, bensì
colline scure, forse non molto alte (la distanza era un mistero, non avendo
punti di riferimento conosciuti) ma nette, il profilo appena tondeggiante. Era
un paesaggio vasto in cui, pur non conoscendolo, qualche cosa mi parve
dissonante: per uno scherzo delle rocce, o del sole, o di entrambi, le colline
– anche le più distanti – non erano ammantate d’azzurro, ma di rosa, di rosso;
inoltre, un velo come fosse stato di nebbia ne sfumava i contorni. Tacevamo:
dopo la sosta per il tè nessuno aveva più riacceso la radio, e solo le fusa
sommesse del motore (non superavamo i cinquanta chilometri all’ora, e anzi
forse adesso andavamo a quaranta, per godere ogni metro, con evidente delizia
di Mohammed) accompagnavano la nostra meraviglia. Dal sedile posteriore spiavo
la faccia del vecchio, e a un tratto mi parve di scorgere nei suoi occhi
malamente riflessi dal parabrezza una sorta di lieto orgoglio per il fatto di
trovarsi in quei luoghi, come fossero suoi: lui ce li mostrava, lui ci aveva
saputo condurre fino a lì.
Sulla sinistra costeggiammo un accampamento di
pastori; il recinto del gregge era vuoto, segno che nei dintorni c’era un
pascolo, o qualcosa di simile. Una donna ci guardò passare, tenendo con una
mano lo scialle rosso che aveva in capo. Più avanti, una tenda isolata era sul
punto di volare via, gonfia di vento. Pochi minuti dopo, entrammo in un
villaggio di case bianche in pietra, a secco: sulla piazza una specie di pozzo,
o di fontana, e l’unico segnale stradale che avremmo incontrato in tutto il
giorno: una freccia gialla che puntava a sinistra con una scritta nera che
indicava nelle due lingue: "Matmata,
7,5 km."
Eravamo vicini, oramai: girammo intorno al pozzo
uscendo dal villaggio, e avanti a noi si stese una pianura nella quale non
vedevo né fortezze né torri, solo le colline e poche palme con le loro ombre.
Sulla destra, a pochi chilometri da noi, il terreno si faceva più scuro;
procedendo mi resi conto che dovevamo essere quasi arrivati, e che quella che
mi era apparsa come una zona più scura era la valle. Coprendo appena il suono
del motore, con la sua voce bassa Mohammed disse:
"Qui."
Fermammo l’automobile, e nell’aprire le portiere ci
accorgemmo che il vento adesso tirava forte, molto più di prima: a testa bassa,
stringendomi lo scialle con tutt’e due le mani, raggiunsi il bordo di quello
che sembrava un catino smussato. Quando fui lì mi resi conto di due cose: la
prima, che era molto più grande di quanto non mi fosse sembrato da lontano e la
seconda, che per tutto il giorno, nella mia mente, e senza che ne fossi cosciente,
la valle e la battaglia avevano pian piano preso la forma e la grandezza di
Micene. E ora che non vedevo né leoni né pietre, non una colonna, non una sola
tomba, ora ero pronta à la guerre des
étoiles.
La nostra guida si chinò sui talloni agilmente,
consigliandoci di fare altrettanto. Obbedimmo. Impossibile a vedersi dalla
strada lì, sotto i nostri occhi, in morbida discesa e sulla destra, e sulla
sinistra, si stendeva una conca che rivelava un canyon, tutta di sabbia e senza
pietre in vista. Mi feci schermo al sole con una mano, e osservando meglio mi
accorsi che al contrario ce n’erano di pietre, e anzi erano tutte pietre, ma
calcaree, tanto che il vento o l’uomo o entrambi le avevano scavate e modellate
fino a farne case, grotte, passaggi, cupole, cunicoli, slarghi tra un cunicolo
e l’altro. Nulla che assomigliasse a un architrave, o a una porta: eppure erano
porte quelle, archi, sebbene irregolari, e mi aspettavo da un momento all’altro
di vedere sbucare cammellieri, donne, asini carichi di ogni tipo di mercanzia.
Sembrava che quel luogo ci avesse attesi, e che a un nostro segno avrebbe preso
vita. Mi riscossi nel sentire la voce di Mohammed che insisteva.
"Ma come, non la riconoscete? Davvero? Davvero
non conoscete la guerra delle stelle? Sapete, ci sono stato anch’io: come
guida. Ero insieme a mio figlio, sapete, per l’inglese; si sarebbero persi senza noi. Venite, si può
scendere."
Ero confusa. Non capivo di che cosa stesse parlando
l’arabo, e temetti che l’età gli facesse sovrapporre avvenimenti reali, di cui
magari era stato partecipe, a ricordi di altri, o, peggio ancora, a ricordi
inventati per incantare stranieri come noi. Scendemmo seguendo un sentierino
che pareva di sabbia, ed era invece di quella roccia liscia e polverosa. Il
vento soffiava spingendoci contro la parete in discesa lungo la quale correva
il sentierino, cosicché ci era impossibile cadere. Soffiava più piano via via
che si scendeva, e la polvere ora non si sollevava più su delle nostre
caviglie, dandoci la sensazione di camminare su di una superficie immateriale.
Quando fummo sul fondo la nostra guida avanzò spedita nella conca fino a una
parete dove un arco alto tre o quattro metri dava su di una grotta ampia e
inaspettatamente luminosa. Ci fece cenno di entrare.
Camminando molto lentamente, affascinati
dall’assoluta uniformità di pareti e di suolo, passammo sotto l’arco tenendoci
per mano, io e il mio amico: dentro, una sorta di cupola prendeva la sua luce
da due aperture ovali, ricavate scavando quasi alla sommità. Da lì vedevo il
cielo, da lì calava una luce di polvere; e in quel pulviscolo sospeso i raggi
disegnavano colonne diagonali che attraversai, rapita. Volsi lo sguardo in
fondo, con la netta sensazione di avere già visto quel posto in vita mia.
Dove le pareti della cupola toccavano il terreno una
scanalatura profonda più di un metro e altrettanto alta correva, orizzontale;
era una sorta di panca scavata nella roccia, fatta apposta per stare sempre
nella zona d’ombra, che terminava in un’altra apertura a forma di arco: la
oltrepassai e mi trovai in una seconda stanza, una seconda cupola più piccola e
più buia, priva di aperture. E, mentre i miei occhi si abituavano all’oscurità,
di colpo rividi Luke Skywalker entrare dal buio nella luce della grotta più
grande, passando dallo stesso arco dal quale ero appena passata io: e lì, dalle
due finestre ovali, guardare i due soli arancioni del suo pianeta. Correndo,
tornai fuori, da Mohammed, e quasi senza fiato gli domandai:
"Quale guerra, Mohammed? La guerra delle
stelle? Volete dire il film?"
Alzò lo sguardo al cielo e si batté una mano sulla
fronte, divertito, come se capisse soltanto adesso che cosa avevo mai pensato
io, e cosa il mio compagno.
"Ma certo, ma sicuro! La guerra delle stelle,
il film, che cos’altro? Allora lo conosce, lei lo ha visto, ne ero certo! Sono
venuti qui con tutte le macchine e delle luci terribili, è stato tanto tempo
fa, per questo io e mio figlio gli abbiamo fatto da guide. Poi l’hanno dato nei
cinema di Tunisi, e anche a Gabés, mio figlio è venuto a prendermi con i
bambini e sono andato a vederlo insieme a loro, oh, a loro è piaciuto molto, ma
io non lo so, Matmata si vede poco, solo all’inizio e dopo il resto mi hanno
detto che l’hanno fatto in America."
Nel dire questo facemmo il giro della cupola
sbucando sul canyon principale,
"vedete?"
E lì, davanti a me, tutta la valle si ripopolava
degli omini dagli occhi rossi, delle cavalcature dagli occhi pure rossi. Il mio
compagno guardava davanti a sé con un’espressione tra l’incredulo e il
divertito, e anche io non sapevo più che cosa stesse accadendo: credevo che
l’arabo ci avesse raccontato frottole, e invece – come negarlo? – quello era il
luogo de la guerre des étoiles:
guerre stellari. Guardai Mohammed sconcertata: e lui si lasciò andare a una
risata, una risata che gli apriva il cuore, per noi, per sé, per la memoria di
quel lavoro svolto pochi anni prima, per gli americani, per il film. Ridemmo
pure noi, e continuammo a camminare per la valle, infilandoci nelle strette
gole dove il vento cambiava suono e l’aria densità di polvere.
Speravo in una fortezza, ed ero in una serie di
curve più morbide del burro: contavo sul deserto, e le colline circondavano la
valle. E non c’erano scudi e sultani, né stellati né d’altro, né stendardi né
trombe, né cimiteri di battaglie perse.
Trovai una mascella di capra perfettamente pulita e
liscia come la seta, e una rosa del deserto piccola e imprecisa che mi si
sbriciolò tra le dita. Il sole era più basso, e non faceva caldo, ma picchiava
lo stesso sulla sabbia facendola brillare: luccicava mandando barbagli duri
come lame di coltello, che ferivano gli occhi. Più tardi, ci ritrovammo tutti e
tre nella cupola grande, e lì seduti sulla panca scavata nella pietra mangiammo
pane con uova sode e pomidoro, che avevo portato io, e datteri dolcissimi, che
aveva portato Mohammed. Nella sacca avevo la borraccia con l’acqua,
tiepida oramai. Il pomeriggio trascorse camminando tra l’ombra e il sole,
inebriati di vento. La nostra guide arabe
des Berbères ci raccontò che una volta era stata abitata, la valle: ma
quando di preciso non sapeva dirlo.
"Prima,"
mormorava, guardandosi le mani lunghe e curate,
"prima, molto tempo fa. I bérberi. Vivono
ancora da queste parti, ed hanno sempre casa nelle rocce, ma son case più
belle, con la luce e con l’acqua, e la televisione (i più ricchi), e i loro
figli vanno a scuola. Le scuole arabe: non l’ha visto prima, quando ci siamo
fermati per il tè, quel pullman?"
Sì, l’avevo visto. E al ritorno avrei guardato
ancora meglio, e fatto più attenzione: avrei osservato l’insegna in arabo della
Coca-Cola, i pali della luce, i fili che tagliavano il paesaggio, ovunque,
ovunque. Avrei visto le scarpe all’europea anche ai piedi dei nomadi, e gli orologi
digitali, e una bicicletta. E un frigorifero usato come armadio in un cortile,
e il distributore di benzina, nei pressi di Gabés, con le sue scritte in arabo,
e le offerte speciali, e la réclame dei biscotti e del pollo. Sulla via del
ritorno: non mancava moltissimo al tramonto, ed era tempo di ritornare.
Risalire fu più difficile, ubriachi per la polvere e
il moto continuo di quell’aria che andando verso l’alto ritornava tesa, veloce,
sonora. Quando di nuovo ci trovammo alla macchina, mi volsi per guardare
un’ultima volta la valle de la guerre des
étoiles. Ora il tramonto si avvicinava, il freddo iniziava a raggiungerci,
e, lontano, un luccicante tremolio, come uno splendore d’acqua nella sabbia
arancione denotava la presenza di un’oasi: forse l’ultima, prima del deserto
che immaginavo oltre l’orizzonte, a poca strada da noi. Chiamai la nostra
guida.
"Mohammed, come si chiama quell’oasi?"
"Quale oasi, madame?"
"Quella, Mohammed, quella dritto davanti a noi.
Quello specchio d’acqua ai piedi delle palme."
"Specchio, madame? Guardi meglio. Io non saprei che dirle. Guardi meglio, veda lei da sola."
Non capivo, perciò aguzzai lo sguardo, e
d’improvviso l’acqua si smaterializzò. Non più la pozza, non più lo scintillo
dell’acqua: poteva essere l’ombra di una nuvola, ma da molti giorni non c’erano
più nuvole nel cielo. Mi girai verso il vecchio.
"Che succede, Mohammed?"
"Niente, madame.
Sono gli scherzi che fa il deserto."
"Deserto? Quello è già il Sahara?"
"Certo, madame, quello è già il Sahara. E
questa strada, da questo punto in poi, da queste parti la chiamiamo la porta
del Sahara. Sono sessanta, forse settanta chilometri di distanza da qui al
deserto. Vede quelle dune più grandi all’orizzonte, quelle due dune
vicine?"
"Quali dune, Mohammed? Dune di sabbia, vuole
dire? Vuole dire che non sono colline, quelle?"
"No, madame; quelle sono le dune, le prime dune
del Sahara tunisino. La porta del Sahara, così noi lo chiamiamo, questo
posto."
Ora capivo il mancato azzurro della lontananza,
l’azzurro di cui la lontananza non si ammantava: e la "nebbia" di cui
mi ero stupita doveva essere vento nel deserto, sabbia in volo, che sgranava,
passando, ogni contorno. Così, quello era il deserto. Il grande nulla aveva
inizio lì, a portata di sguardo. Nulla. E sabbia, e sole, e vento, e acqua che
non c’era ("Strani scherzi", mi ripeteva la voce di Mohammed). Un
dubbio mi assali, né seppi trattenerlo.
"Mohammed, per favore, come si dice in francese
‘Sahara’?"
L’arabo mi guardò sorpreso, interrogativo. Nel
timore di non essermi spiegata, aggiunsi:
"Voglio dire, che cosa significa Sahara?"
Ora il suo sguardo andava da me al mio compagno e
poi tornava a me, come se durante il tragitto la mia domanda avesse potuto
diventare meno stupida.
"Mi perdoni, madame, ma cosa vuole dire ‘Che cosa vuole dire Sahara?’"
Temevo il peggio: che qualche cosa si fosse
inceppato in quel meccanismo per il quale il francese faceva da ponte tra di
noi, e che non fosse più possibile nemmeno fare finta di capirsi come avevamo
fatto fino ad allora.
"Sì, per favore: è vero che Sahara significa:
nulla?"
A questo punto, la nostra guida tornò seria come
quando lo avevamo incontrato la mattina nella hall del Régina. Fece il gesto di
scrivere, e mi affrettai a restituirgli la matita e il diario. Lo aprì a caso,
scrisse qualche cosa in arabo, e accanto:
"Sahara.
92.000.000 kilomètres de sable. Vaste mer de sable."
Poi, guardandomi:
"Il deserto, madame, e questo lo dico anche a voi, monsieur, perché la vita è lunga e non si sa mai che cosa può
tornarci utile quando meno ce lo aspettiamo, non può essere nulla, perché il
nulla è vuoto, e il deserto invece è pieno. Pieno di sabbia: ecco che cosa
significa Sahara, grande mare di sabbia. Non so chi vi abbia detto una
sciocchezza del genere, ma ditegli da parte mia che è una sciocchezza. Chi l’ha
detta non dev’essere di queste parti, credetemi. Madame…"
Così dicendo, mi restituì il diario con un inchino.
Montammo in macchina, e ripercorremmo la strada dell’andata arrivando a Gabés
con gli ultimi raggi di sole. Il padrone ci aspettava seduto sullo sgabellino
nell’ingresso, fumando, e quando ci vide arrivare gettò la sigaretta e andò
incontro a Mohammed. Confabularono in un angolo mentre noi scuotevamo la
sabbia dagli scialli e dai capelli, posando in terra le borse e lasciandoci
cadere infine sul divano dell’atrio. Dalla porta, la guida ci salutò con la
mano: ma ero troppo stanca per capire che probabilmente non lo avremmo più
visto, ora che il suo compito s’era esaurito, e lo salutai distrattamente, non
come avrei voluto. Il padrone ci chiese poi se volevamo cenare, e noi, che quel
mattino avevamo pensato di andare a festeggiare l’avvenuta guarigione da
qualche parte, ci rendemmo conto di non esserne in grado, di essere troppo
stanchi: annuimmo contenti e ci spostammo nella sala da pranzo. Lì ordinammo
couscous d’agnello, e melanzane, e un dolcissimo dolce tunisino. E vino, come i
francesi. Un televisore, su una mensola in alto, trasmetteva notizie che noi
non capivamo.
Si vedeva un aereo volare in cerchio su una grande città del nord, in una giornata di pioggia.
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