LA GUERRA DELLE STELLE – PRIMA PUNTATA

 

 

ماطماطة

القديمة

 

 

 

 

Quando partii per la Tunisia avevo con me, oltre a
una certa quantità di oggetti che sarà inutile elencare ma che forse verranno
nominati qui e là, e forse no, due certezze: che avrei visto il Sahara, e che
Sahara significasse: nulla. Entrambe le cose furono vere per metà.

La storia andò così.

Eravamo oramai da alcuni giorni in un’oasi, una
grande oasi costruita e abitata, con più di una locanda e – meraviglia – più di
una libreria.

"Tutti devono leggere, se vogliono"

disse il libraio quando me ne stupii, quando gli
chiesi come fosse possibile. Perché non si offendesse, gli spiegai che in
Italia, in un paese di altrettanti abitanti (più o meno ventimila) spesso di
librerie non ce n’è neanche una: fu lui a stupirsi. Nel pagare, mettendomi
Duras in una bustina di carta, disse:

"Mi spiace."

Dispiaceva anche a me.

Da alcuni giorni, dunque, eravamo a Gabés, quasi sul
mare.

Il mio compagno non si sentiva bene; una febbre lo
aveva abbandonato, finalmente, ma lasciandolo stanco, esasperato, sospeso nella
polvere delle molte strade di terra, della grande piazza di terra rossa. Io
sedevo nel sole a un tavolino di alluminio nel giardino del centrale Hotel
Régina, accanto a una buganvillea arancione fiammante. Ogni tanto andavo nella
nostra stanza: la porta azzurra, socchiusa, dava sulla penombra in cui dopo
pochi attimi scorgevo la sagoma del letto e, sul letto, un’ombra più fitta. Mi
avvicinavo e lo sentivo respirare piano, nel dormiveglia, gli occhi appena
socchiusi di chi più che dormire riposa. Se si accorgeva di me, li apriva e
sorrideva, oppure si girava leggermente, rannicchiandosi per farmi posto sulla
coperta di cotone. Sedevo, e restavamo lì in quella poca luce, io con il mio
viaggio e lui con il suo. La malattia mi dava il senso di un’apparente
quotidianità di cui le ero grata; nella sosta forzata e indolente avevo
ritrovato la casa e lo spazio e il bisogno di un mazzo di fiori.

Passai il pomeriggio così, tra quella stanza e il
giardino; sedevo e leggevo, costante. Il padrone del Régina mi guardava da un
angolo più in ombra: in mattinata si era dichiarato pronto ad accompagnarmi, in
banca, in farmacia, ovunque, e al mio diniego, pensando che temessi di
mostrarmi sola con un uomo – e che uomo – mi aveva offerto, gentilmente, sua
sorella; avevo rifiutato con un sorriso e poche parole che non ricordo, ed ero
uscita. Il mio era desiderio di solitudine: una breve passeggiata, sola, nel
souk di Gabés, tra le poche botteghe e i tanti venditori nomadi con i loro
mucchi ordinati di polipi e pesci secchi, di peperoncini e curcuma ed henna,
non chiedevo altro. Comprare in quel viaggio era come parlare, e guardare era
come tacere, e allora io guardavo, guardavo; era tutto quel che volevo, per
carità, non se ne avesse a male. In un primo momento si era così creata una
barriera di distacco tra noi, di ostilità: ricordo i suoi baffi neri sottili e
la sua faccia forte ritirarsi nell’ombra, senza guardarmi in volto, mormorando
quasi tra sé:

"Je ne vous dérangerai plus,
mad’moiselle"

con un’inflessione grave, che sembrava costargli
dolore.

Niente e nessuno aveva disturbato i miei passi: gli
sguardi degli uomini e delle poche donne mi avevano seguita curiosi, o si erano
precipitati prima delle parole a offrirmi questo e quello. E io, che non volevo
nulla, avevo finito per cedere davanti a una berbera tatuata che vendeva
minuscole giunchiglie dal profumo inebriante, e al miracoloso libro.

Ma adesso, nel pomeriggio avanzato, col passar delle
ore (io continuavo a leggere, il padrone beveva tè o chiacchierava distratto
nella hall con gli arabi che entravano al Régina per ragioni da uomini che mi
sfuggivano e dunque non seguivo) il mio silenzio e la mia solitudine parevano
attrarlo, quasi che sentisse quanto ero sola, quanto profondamente e
totalmente, con quale piacere e abitudine, con quale convivenza con me stessa.
Se alzavo gli occhi interrompendo la lettura incontravo il suo sguardo: né lui
lo nascondeva più, poiché nulla c’era di male in quello sguardo, nulla. Non era
più un arabo qualunque che consapevole guardava una qualunque europea, né era
un uomo che guardava una donna, no: piuttosto, ben oltre tutto questo – che
rimaneva vero – ci si riconosceva soli, lui padrone d’albergo (non ho mai visto
gente più sola) e io, io viaggiatrice. Così, se abbandonavo il libro e i miei
occhi incontravano i suoi, quelli mi rispondevano: e lui piegava un poco la
testa, alzava il bicchiere del suo tè e lo portava avanti, al confine
dell’ombra, dove un debole raggio lo sfiorava, ché potessi vedere come lui
continuava a essere se stesso, a fare la sua vita di tutti i giorni. Non ero
più un evento: ero parte del luogo, come la bouganville, come l’insegna, la
temperatura, come le piastrelle in cortile. Era il mio benvenuto, il mio
ingresso a Gabés.

Infine, quando fu ora di cena, senza che gli dovessi
dire una parola o fare un cenno, o scegliere qualcosa (sapeva bene, e lo sapevo
anch’io, che quello che troviamo senza aspettarlo né deciderlo andrà a far
parte della nostra memoria; e sapevamo entrambi, anche, che è la memoria a fare
il viaggio, qualsiasi viaggio, per conto nostro), mi fece portare al tavolino
due tazze di brodo in cui galleggiava un uovo, pane bianco, un pesce molto
tenero, e della frutta.

Mentre mi alzavo per andare a bussare al mio
compagno lo cercai nell’ormai buio fitto dell’ingresso in cui restava. Non vidi
nulla, forse non c’era più. Dove si fosse ritirato, a fare cosa, io non ne
avevo idea: seduta sul letto cenavo col mio amico, sorridenti, lui più forte,
progettando il mattino seguente.

Poi dormimmo a lungo, io sognando del libro e del
libraio moltiplicati all’infinito in una teoria di librerie piccolissime in
oasi piccolissime con una palma sola, lui non so. Aprii gli occhi per prima,
serena, poco dopo l’alba.

Talvolta accade che ci si svegli spinti da un sentimento
di necessità: allora si scrive, allora, quando la percezione dell’inferno cui
ci siamo appena sottratti, il sonno buono e perfido, ci si dichiara
implacabile. Afferrai il diario che tenevo sul comodino, la matita, e appuntai:

"9 gennaio. Gabés, ancora. Il luogo è
un’illusione. Le cose avvengono ovunque. Oppure: non avviene più nulla,
semplicemente riconosciamo gli avvenimenti; nemmeno sempre: li nominiamo con
ordine, ne elenchiamo ossa e muscoli. Troppe volte si fa finta di sapere ciò
che altri sanno, di conoscere ciò che altri conoscono. Annaspiamo in una lingua
non nostra, forse altrui. (Cancellato) Abbiamo perso la memoria. Si cerca, si
cerca, ma non c’è più luogo. Non c’è più per nessuno. Se c’è, non sappiamo come
si chiama, o non abbiamo la voglia di chiamarlo, o la forza per farlo. Ci vuole
molto più coraggio di così. Mai mancare a sé stessi."

Poi mi girai verso l’altra metà del letto. Una mano
mi sfiorò il fianco, fresca e finalmente forte. Aggiunsi in fretta:

"N. sta meglio. Spero che sia passato
tutto."

Ci vestimmo e uscimmo; quando fui sulla porta, mi
giunse un:

"grazie"

suadente e lieve. Mi girai e ritornai sul letto; ci
fu un abbraccio caldo di amici e d’altro, capelli scarruffati, odori buoni. Il
tavolino rotondo brillava nel primo sole come argento, in giardino; lo vedevamo
dalla porta aperta e ci sciogliemmo per andare fuori, in quel sole, a prendere
un caffè. Subito ci venne incontro il padrone:

"Buongiorno, buongiorno, come sta monsieur? E’ guarito?"

Il mio compagno rispose di sì, che si sentiva molto
meglio.

L’arabo annuì, come se la cosa confermasse i suoi
piani, poi proseguì:

"Mi auguro che abbia potuto riposare bene qui,
nella mia locanda. E anche madame,
spero, sarà stata a suo agio tra di noi."

Non dissi nulla, ma chinammo entrambi la testa
stringendoci brevemente le mani. Non so da dove mi fosse venuto quel gesto: mi
parve di ritrovarlo, inscritto in un codice che era anche il mio, ma che fino a
quel momento, o fino a quella latitudine, non avevo adoperato mai.

"Bene,"

disse poi, rialzando la testa,

"forse con il caffè desiderate un pane appena
fatto e della frutta, oui?"

"Mais
oui, bien sûr. Merci
".

L’arabo ci lasciò, e noi sedemmo. Ritornò dopo poco
con le arance e il pane, e, poiché non accennava ad allontanarsi, lo invitammo
a sedersi con noi. Allora parve tirare fuori dal nulla (ma più probabilmente la
sua mole e le pieghe del burnus mi
avevano ingannato) uno sgabellino di legno pieghevole sul quale si accomodò con
grazia imprevista, e dopo essersi seduto con le ginocchia divaricate ci guardò
divertito. Infine, posando sul tavolino una chiavetta d’accensione che un tempo
era stata cromata, e che pendeva, opaca ormai, da un portachiavi rosso di
plastica, disse:

"Per voi, madame."

Era la seconda volta che mi chiamava così, quel giorno,
e non potei fare a meno di notare che fino al giorno prima per lui ero stata mad’moiselle.

"Vedete,"

proseguì con la sua voce fluida prima che potessimo
chiedergli spiegazioni,

"avrei preparato per voi una piccola sorpresa.
Se voleste farmi la cortesia di accettare, c’è qui fuori una macchina, e un
parente di mia moglie sarebbe lieto di accompagnarvi a conoscere i dintorni.
Mohammed è un po’ anziano, e certamente non sa guidare, ma se monsieur si è
ristabilito io credo che sareste felici di conoscere Matmata. Sapete, il luogo de la guerre des étoiles."

Parlava un buon francese, ma le consonanti appena
più marcate del necessario lo denotavano come lingua altra dalla sua lingua
madre: qualche cosa di simile succedeva anche a noi, e per comunicare compivamo
complesse transizioni, dalla sua cultura alla nostra e poi di nuovo dalla
nostra alla sua. Cosicché la lingua era una patria, dopotutto: ma nel mio caso
terra di nessuno, per l’arabo terra di conquista. Capirsi era difficile, quasi
impossibile. Chiesi:

"Guerre
des étoiles
?"

E l’uomo mi guardò meravigliato, come se non avesse
mai incontrato in tutta la sua vita una sola persona che non fosse al corrente
di quella guerra. Si girò verso il mio compagno e disse, senza aspettare la
risposta:

"Certamente, monsieur saprà di che cosa parlo: a Matmata, nella zona dei
bérberi. Comunque, se non volete andare…"

Noi volevamo andare: il mio compagno pensando forse
allo scenario di uno scontro per l’indipendenza tra fieri bérberi e francesi o
tunisini, una battaglia minore di cui non c’era quasi più memoria in Europa; io
con la visione di sultani dagli scudi stellati slanciati nella corsa incontro a
truppe dai lunati stendardi, in un’improbabile quanto generica epoca remota,
sospesa tra storia e leggenda, sull’orlo del deserto. Se non rabbrividii fu
solo perché oramai non doveva più esserci alcuna traccia del sangue e degli
schianti, ma solo una fortezza, o quel che ne restava: e lì, dalle mura o da
una torre, se ce n’era ancora una, avrei visto il deserto; e ripensai all’oceano,
al primo oceano che avessi visto in vita mia. Ma non potevo confrontare l’acqua
che si stendeva per oltre cento volte l’orizzonte di tanti anni prima con il
Sahara, il nulla dove non ero stata ancora.

Fatto sta che accettammo, ringraziandolo entrambi
calorosamente di tanta cortesia; lui ribatté che era un piacere, e che sperava
avremmo portato un buon ricordo del Régina al nostro ritorno in Italia,
nonostante l’incidente della febbre, trés
triste
. Così dicendo si girò verso la hall, e fece un cenno a Mohammed
perché venisse avanti; dall’ombra, a lunghi passi, un vecchio attraversò il
giardino. Camminava dritto e sicuro: era molto serio in volto, molto magro (al
contrario del nostro ospite), e aveva baffi grigi, e occhi grandi, reticolati
da rughe. La fronte era spaziosa, e grigie erano anche le poche ciocche di
capelli che uscivano dal feltro dello shesh
marrone. Giunto davanti a noi, ci guardò dritti in faccia, e si toccò il petto,
poi la bocca e la fronte nel saluto degli arabi, con un movimento elegante che
gli fece ondeggiare come vento le pieghe del mantello. Lo invitammo a sedersi,
ma non volle. Alzò lo sguardo al sole, disse qualcosa che non capii, e rimase
all’impiedi, in silenziosa attesa; noi ci alzammo, e accennammo a uscire:
allora ci fermò e, senza rivolgersi a nessuno in particolare, disse:

"No, così non può andare. Vi dovete coprire,
specialmente madame. C’è vento nella
valle di Matmata, la sabbia vola e dà fastidio agli occhi. Se avete degli
occhiali dovreste metterli, sì, sarebbe meglio. E uno scialle per la testa, e
una giacca, qualcosa di pesante. Parlo per voi."

Tornammo nella stanza, e in pochi minuti fummo
pronti. Sulla porta dell’hotel ci aspettavano il padrone e Mohammed:
quest’ultimo con un gesto largo del braccio ci indicò una bellissima Mercedes
rossa, vecchiotta e impolverata (impossibile non esserlo, da quelle parti) ma
elegante e priva di ammaccature. Parcheggiata quasi al centro esatto della
piazza, nell’ombra di un gigantesco albero di ficus, aveva grandi specchi
retrovisori, e persino un’antenna; sulla portiera si intravedeva semicancellata
una scritta, segno di passati commerci. Mohammed sedette accanto al posto di
guida, per spiegare la strada, e chiese se poteva accendere la radio. Il mio
compagno non rispose, forse non sentì, o forse con la mente era già oltre la
piazza, oltre le case e il risveglio del mercato: ma io, che non aspettavo
altro, cullata dalla morbidezza del mio sedile color crema, dissi sì. E subito
salì una musica, una voce di donna che cantava, accompagnata da un coro, una
melodia tunisina. Prima di sprofondare nel silenzio preciso del viaggiatore,
Mohammed ci spiegò:

"Bisogna andare dritti per una decina di
chilometri uscendo da Gabés in direzione sud. Non ci si può sbagliare."

Poi tacque.

La Mercedes partì con un sussulto, sollevando la
polvere immancabile e spaventando un lustrascarpe che dormiva. Avrei voluto
chiedere alla nostra guida di raccontarmi di Matmata e della guerra delle
stelle; ma il vecchio era girato verso il finestrino (fuori, le case si
succedevano a intervalli sempre maggiori fino a scomparire, e le ultime palme
dell’oasi lasciavano il posto a bassi cespugli), e osservava il paesaggio
diradarsi e mutare con un’aria talmente assorta che non osai distrarlo. Presto
anch’io smisi di pensare parole e lasciai che non ci fosse più alcun pensiero,
ma solo il sole ancora basso sull’orizzonte, e bianco, e un gregge di capre
oltre una curva, e donne con brocche o cesti, e un carretto che trasportava
arance. Mohammed taceva, tutti e tre tacevamo e ascoltavamo la donna che
cantava.

Dallo specchietto io e il mio compagno ci
guardavamo: solo un paio di volte il silenzio fu interrotto dall’arabo che, nei
pressi di un bivio, ci disse quale direzione prendere. Dopo una cinquantina di
chilometri, una canzone dopo l’altra incontrammo un villaggio; era un giorno
feriale, e un pulmino giallo con una scritta dai caratteri azzurri, che non
poteva essere altro che scuolabus, era parcheggiato nei pressi di un vasto
edificio basso color terra bagnata. La nostra guida propose di fermarci, per
bere un tè.

"Più avanti non ne troveremo,"

disse, come se fosse stata l’ultima parola di una discussione cominciata chissà da quando, chissà da chi.

        (Fine della prima puntata)

 

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