LA FACCIA DI UNA

 

 

 

 

 

 

 

 

Confusa, si
guarda le mani. Sono le stesse, non c’è alcun dubbio. E allora? Perché
dovrebbero essere diverse? E soprattutto, se non loro, che cosa è diverso? Per
l’ennesima volta ripete (ma a chi?): dovresti guardarti in faccia; c’è uno
specchio, di là.

E per
l’ennesima volta no, non è proprio il caso.

Quando è
successo: no, non quando, dopo. Dopo che è successo: no, nemmeno questo va
bene. Non appena, ecco, così tutto va a posto. Non “appena è successo”, no,
questo stabilirebbe un prima e un dopo al quale non è ancora pronta, o al quale
non s’è ancora arresa, bensì “non appena”, un tempo ancora sospeso, privo
ancora di forma. È quasi inverosimile come da sempre non solo le parole ma
anche, soprattutto, il giusto ordine della loro scelta abbiano il potere di
restituirle il senso delle cose e della loro esperienza. Non appena è successo,
dunque, è uscita nel corridoio e ha chiamato. O meglio, ha detto “credo” (ma a
chi?) e l’infermiera – presume – ha detto “sì”. Un attimo dopo sono entrate –
hanno fatto irruzione, dirà se e quando le chiederà qualcuno – le suore; lei
voleva rientrare ma quelle l’hanno spinta con fermezza oltre la porta. Con
fermezza, non con dolcezza. Balle, fermezza era. E drastica. Da allora è seduta
su una poltroncina di finta pelle screpolata, rosso scuro, rosso sangue di bue
– che colore incongruo in un posto del genere – e si guarda le mani.

Basta, si
costringe ad alzarsi, raggiunge il telefono del piano, chiama. Due chiamate,
una più breve dell’altra; del resto non c’è molto da dire. È successo, questo è
quanto. Venite non c’è bisogno di aggiungerlo. Stanno arrivando. Deve
respirare, è assolutamente necessario che respiri al più presto. Quel che ha
fatto entrare nei polmoni negli ultimi minuti non era che aria disattenta, aria
senz’aria. Non è nemmeno sicura di aver aperto e chiuso i polmoni, si è come
limitata a biascicare qualcosa col fiato, dentro e fuori senza accorgersene,
meno che meccanicamente, molto meno che involontariamente. Butta fuori quel po’
di respiro che le resta in gola e si costringe a immettere l’aria nuova piano,
piano, riconoscendola, allargando il petto, per farla uscire con altrettanta
attenzione. Una volta, due, tre. Conta. Arrivata a dieci si gira e va alla
porta. La apre senza discussioni, è dentro. Ma tutto è finito. Resta a guardare
quel che vede – un corpo, in fondo non c’è altro che il corpo – nel momento
esatto in cui frotte di storni abbandonano gli alberi del viale sottostante e
il riquadro della finestra, oltre le tende leggere già accostate (perché mai?),
si riempie di forme scure in volo.

Tutto è
incongruo, non solo il rosso sangue della poltroncina, non solo le sue mani
identiche a prima.

Ce l’ha
fatta. L’ha pensato, l’ha detto, pure se senza voce: prima. Allora adesso è
dopo, finalmente è inevitabile, pronta o non pronta così è. Questo è perché
quello è, né più né meno. Le suore escono senza una parola lasciando aperta la
porta; non fa in tempo ad accorgersene, non fa in tempo a richiuderla che entra
suo padre. Barcolla, irrigidito e disgregato insieme, non la vede – del resto,
non l’ha mai vista – e la stanza si riempie di lui fino all’orlo,
trasformandosi nel primo teatro d’esecuzione del suo dolore eccessivo,
accecante, talmente esibito da farsi sospettare una volta per tutte inautentico.
È tempo che inizi la compassione, ma dov’è? Le basta girare il viso, tornare a
guardare il lettino per trovarla: eccola là, a portata di mano. Va incontro al
vecchio, lo abbraccia e quello la allontana. C’era da aspettarselo. Respira
ancora, lo carica a testa bassa e lo abbraccia di nuovo. Lo tiene stretta,
tanto quanto vorrebbe essere tenuta stretta lei, lo raccoglie tra le braccia
quanto vorrebbe essere accolta lei, per una volta, e se non questa quale, e se
non ora quando. Il vecchio cede, lancia un urlo simile al pianto, e prima di
allontanarla ancora – definitivamente, già, proprio per sempre – si
lascia sentire tra le mani. È solo un attimo. Se lo farà bastare.

Altri
passi: è Livia, gli occhi gonfi di pena. Marco sta parcheggiando, dice, sta cercando
un parcheggio, dice, a quest’ora non s’è ancora mosso quasi nessuno eppure non
trovava posto, dice, e si arrabatta, incastra qualche altra frase, poi si
spezza e tace e ingoia il pianto e la guarda. Questo sì che è un abbraccio,
Livia mia, tesoro mio le risponde l’amica, si stringono respirando insieme.

Subito dopo
iniziano mille cose; altre telefonate, decisioni da prendere, compiti da
spartirsi, faccende da organizzare. Sale Marco, Livia spalanca le tende, l’alba
è finita.

Poco più
tardi si vede per caso riflessa oltre il bancone del bar dove Andrea – non era
stato necessario dirgli niente, al telefono, che lui l’aveva già
tranquillizzata, “arrivo”: ed è lì – l’ha costretta a fare colazione prima di
mettersi in moto.

“E così è questa la faccia di una quando sua madre è morta", pensa: ma non fa nemmeno in tempo a decidere di tenerlo per sé che Andrea paga e le fa cenno di andare. Prima di infilarsi nel giorno e nel traffico si accorge con vergogna di aver pensato che sì, il cappuccino e il cornetto erano buonissimi.

 


 


 

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